Rientrati dall’Africa i ricercatori dell’Ateneo di Udine
Effetto serra e desertificazione: prima fase operativa del progetto "Bebi"
In Ghana, Togo e Sierra Leone gli esperti hanno lavorato
con i partner e le organizzazioni non governative coinvolte
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Costruzione delle stufe pirolitiche negli istituti tecnici locali
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Predisposizione della strumentazione per la misurazione della qualità dell’aria
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Test delle biomasse e misurazione delle temperature
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Utilizzo della stufa in un villaggio
Si è conclusa la prima missione operativa in Ghana, Togo e Sierra Leone dei ricercatori del dipartimento di Scienze agrarie e ambientali (Disa) dell’università di Udine nell’ambito del progetto di ricerca e trasferimento tecnologico “Bebi - Benefici per l’agricoltura e per l’ambiente derivanti dall’utilizzo del biochar nei paesi ACP-Africa, Caraibi, Pacifico”. Avviato dall’ateneo friulano a inizio 2010 e coordinato da Alessandro Peressotti della facoltà di Agraria, il progetto, il primo in questo settore finanziato dall’Unione europea, intende contribuire alla lotta contro l’effetto serra e i processi di desertificazione in Africa attraverso la diffusione dell’utilizzo del carbone vegetale o biochar. Partner del progetto sono il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), le università di Lomè del Togo e di Njala della Sierra Leone e le tre organizzazioni non governative Asa-Initiative (Ghana), Sauve-Flore (Togo), Cord (Sierra Leone).
Alla missione, che si è svolta nella prima metà di agosto, hanno partecipato Giorgio Alberti e Irene Criscuoli, rispettivamente ricercatore e assegnista di ricerca del Disa, e l’ingegner Nathaniel Mulcahy della WorldStove corporation, che hanno incontrato i partner del progetto e numerose personalità dei governi locali. Nelle zone rurali i ricercatori hanno raccolto campioni di aria per quantificarne l’inquinamento, informazioni sulle biomasse disponibili come combustibili e sulle tecniche di cucina locali. Uno degli obiettivi del progetto, infatti, è di favorire una crescita economica sostenibile, anche diffondendo l’utilizzo di stufe e fornelli a pirolisi a uso domestico, per ridurre le polveri sottili e le emissioni di sostanze tossiche negli ambienti domestici originate da fornelli a fiamma libera.
Con le università e le Ong partner, i ricercatori udinesi hanno condotto esperimenti per verificare l’effetto fertilizzante del biochar. Sono stati effettuati i primi test per l’adattamento delle stufe esistenti alle biomasse, coinvolgendo gli istituti tecnici locali per la realizzazione dei prototipi. Nei villaggi, inoltre, i ricercatori hanno incontrato la popolazione locale per dimostrazioni dell’utilizzo della stufa pirolitica. «Circa 2,5 miliardi di persone al mondo – ricorda Giorgio Alberti - cucinano ancora utilizzando legna e carbone e sono esposte a fumi che possono causare malattie agli occhi, alle vie respiratorie e tumori. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, ogni anno, in seguito a queste malattie, muoiono circa 1,3 milioni di persone, soprattutto donne e bambini».
La stufa pirolitica, messa a punto dalla WorldStove e scelta dal progetto Bebi, consente di estrarre composti volatili da residui agricoli quali gusci di noccioline, residui della noce di cocco o residui di mais producendo un gas simile al metano che può essere utilizzato efficacemente per cucinare. Al termine del processo, la biomassa residua è trasformata in biochar che, una volta applicato ai suoli agricoli, ne aumenta la fertilità.